“Nell’arte, come nella vita, è necessario passeggiare senza paura nei luoghi del passato”

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di Davide Bottiglieri

Cristina Leone Rossiè nata nel 1998 a Venezia e attualmente vive a Roma. Iscritta al DAMS,

Università di cinema di Roma Tre, ha frequentato un’accademia di recitazione per farsi strada

verso la carriera di attrice. L’abbiamo vista calcare il red carpet della Festa del Cinema di Roma

proprio tre mesi fa e ancor prima l’abbiamo vista sfilare sul tappeto rosso del magico Festival del

Cinema di Venezia. Il suo primo amore però non è interpretare la vita bensì raccontarla.

– Dalla scrittura all’interpretazione delle storie. Come mai questo passo?

Il passo era inevitabile, è sempre stato lì, aspettavo solo il momento giusto per tentare di

camminare in questo terreno che non potrei definire “nuovo”, sarebbe improprio, in quanto la

scrittura è sempre stato il mio rifugio, il mio modo di spiegarmi il mondo, tutto ciò che accade

fuori, e nello specifico ciò che accade a me. Di nuovo c’è che per la prima volta ho cercato di far

uscire una mia storia, con la speranza che qualche occhio si posasse sulle mie parole e si perdesse

tra le pagine. Mi auguro che questo sia accaduto. Sono convinta, almeno per quanto riguarda me,

se le cose nella vita si vivono e poi le si getta su carta, quelle cose sembrano esistere di più; sposto

così per mezzo della penna le cose dalla memoria, che per definizione è effimera, all’immortalità

che cede l’inchiostro. È un qualcosa di incredibile da spiegare, la vita, anche un semplice caffè

seduta ad un bar, se lo racconto, sembra esistere di più.

– Come cambia il punto di vista, da attrice a sceneggiatrice?

A cambiare non è tanto il punto di vista, ma il modo che si utilizza per raccontare una storia. Nella

sceneggiatura è fondamentale e necessario lavorare per immagini, in quanto poi ogni scena sarà

visibile su di uno schermo, ogni parola diventa copione e ogni dialogo si fa parola, discorso fra gli

attori. I personaggi quindi, dalla carta, hanno la possibilità di prendere vita. Non mi sembra per

niente cosa da poco, far nascere un personaggio. Farlo respirare. Dargli due occhi. Un naso per

riconoscere gli odori, una voce che scandisce i suoi pensieri. È un privilegio immenso vedere una

storia scritta diventare realtà. E io credo che farò tutto il necessario per tentare di riuscirci. Qui,

parlando del lavoro di chi sceglie di lavorare nella sceneggiatura; per quanto riguarda l’attore/a il

passo è saper prendere gli abiti che lo sceneggiatore ha cucito con cura e attenzione, e saperli

indossare al meglio, regalando a quel copione, a quelle battute, la credibilità che va ripescata nella

vita. Non è cosa facile, ma quando riesce, è di nuovo: magia.

– La costruzione di un personaggio è una fase assai delicata nella stesura di una storia. Come, il tuo percorso da attrice, ha contribuito alla tua maturazione come scrittrice?

Sono felice di aver iniziato a studiare recitazione, prima di pensare alla scrittura in un’ottica di

serietà. Credo possa essere considerato come un passo propedeutico, una palestra, al saper poi

mettermi su carta con credibilità e verità. La recitazione è finzione, ma è pur vero che è una

finzione ricostruita, o meglio, una vita che dovrebbe rappresentare la realtà, emozioni vissute,

esperienze, parole, e tutto questo è vero, e non ha nulla di finto. Si tratta di vita ricostruita.

Credibile. E non è forse questa anche la scrittura?

– Hai solcato il red carpet della Festa del Cinema di Roma e poi quello di Venezia, ci parli un po’ di queste incredibili esperienze?

Ho avuto il privilegio di rendermi conto come ci si sente nel ritrovarsi sotto ai riflettori, e dei più

noti ed importanti come quelli, che illuminano gli interpreti e tutti i personaggi appartenenti al

mondo dello spettacolo, del festival di Venezia a settembre, e la Festa del Cinema di Roma, in

ottobre. È stato incredibile non tanto per la “sfilata” in sé, ma essere lì con un mio progettodietro le mie parole con estrema cura e delicatezza sul tappeto rosso, in ogni sorriso che guardava

nell’obiettivo di una macchina fotografica, ed in un autografo ad un lettore affezionato che è venuto

a salutarmi. Ritrovarsi in eventi come questi è importante e necessario per avere un confronto reale

con l’altro e con tutte le persone che abitano il mondo dell’arte e dello spettacolo. È necessario nel

crescere, nel maturare, per rendersi conto se il lavoro fatto può essere valido e capire se la strada in

cui si cammina, è quella giusta.

– Non trovo più parole è il tuo romanzo d’esordio. Da dove nasce questo progetto editoriale?

“Non trovo più parole” prende vita durante la prima quarantena del marzo 2020. La chiusura e

reclusione forzata che noi tutti abbiamo vissuto, ha dato la spinta alla mia creatività di rilasciare

finalmente su carta una storia che era sedimentata sulla mia pancia e nelle pareti della mia mente

e del mio cuore da qualche anno, probabilmente. Ritengo infatti che non sia possibile recintare la

nascita di una storia, di un racconto, solo nell’atto in cui “viene al mondo” su carta, il tempo cioè che ci vuole per iniziare concretamente a scriverla e a chiuderla in un punto finale; ma ritengo che una storia prima si formi nei pensieri, nella pancia e rimane lì, crescendo sempre di più mentre si è

occupati a vivere, e poi si gonfia talmente tanto, prende reale essenza e presenza dentro di noi che

non rimane altro che trasporla su carta. Questo è quello che mi è accaduto nell’elaborazione del

mio romanzo d’esordio.

– Hai scritto altro prima della pubblicazione del romanzo?

Da quando mi sono trasferita a Roma, per prendere lezioni all’accademia di recitazione nel 2017, la

scrittura ha bussato insistentemente alla mia porta. Io le ho aperto come ho sempre fatto fin

dall’epoca del liceo, dove mi cimentavo in recensioni di libri che ci venivano assegnati in classe

dalla professoressa di lettere, lì è stato il momento esatto in cui ho capito che la scrittura non solo

mi avrebbe accompagnata, ma sarebbe diventata una vera amica, pronta a lasciarmi esprimere

nelle mie confidenze, nei miei pensieri e fantasie. Durante l’accademia però, la scrittura mi ha

aperto una nuova possibilità, non solamente usare la penna per recensire libri che ho amato, o per

lasciarmi nelle mie confidenze, ma per creare racconti, storie, che non fossero necessariamente

riconducibili a me ed al mio vissuto. Così, ho scritto per un anno racconti, che confinavano dalle

cinque alle venti pagine, e ne ho fatto una raccolta di racconti, ora chiusa nel mio cassetto che

spero un giorno di aprire. Da lì ho scritto poi il mio primo romanzo, che però mi è servito

propedeuticamente alla nascita del romanzo che poi ha trovato la prima pubblicazione. Ricordo

che al quarto liceo mi sono avventurata in quello che affettuosamente e con fare gentile potrei

definire il mio vero primo romanzo, ma se lo leggessi adesso, non credo lo farei mai uscire. Ma come si dice: Mai dire mai.

– Un viaggio introspettivo in cui il protagonista viaggia dentro se stesso, ma è lo stesso percorso che ha fatto l’autrice?

Credo che ogni autore/autrice, quando ha la possibilità di scrivere, scrive di sé, seppur in maniera

camuffata e spesse volte irriconoscibile. È umano, ed è anche un qualcosa di buono. Si prende ciò

che si sente, che ci fa male, ci ha fatto bene, e lo si trasforma in qualcosa che diviene altro da

sé.Credo che ogni autore/autrice, quando ha la possibilità di scrivere, scrive di sé, seppur in maniera

camuffata e spesse volte irriconoscibile. È umano, ed è anche un qualcosa di buono. Si prende ciò che si sente, che ci fa male, ci ha fatto bene, e lo si trasforma in qualcosa che diviene altro da sé.

Quando questo accade in maniera eccelsa, allora si parla di “letteratura”. Per parlare di “Non trovo

più parole”, ho creato Edoardo Timbri, un noto scrittore sulla sessantina che ha davanti a sé un

mostro gigantesco contro cui combattere. Insomma, ho messo in difficoltà il mio personaggio di

carta, mettendolo alle strette e costringendolo a fare i conti con sé stesso, la sua vita e le sue

relazioni, cosa che nella vita noi essere umani che non abbiamo la vita che ci cronometra il Tempo,

come invece accade ad Edoardo Timbri, siamo portati sempre a rimandare, a dirci che possiamo

pensarci “dopo”. Edoardo Timbri, questo lusso non ce l’ha. Non può rimandare, non può pensarci

dopo. Ma adesso. Questo è stato un modo catartico per esorcizzare la paura che mi abitava nella

pancia durante l’esplosione della pandemia, che io ho vissuto in maniera catastrofica e oserei dire

quasi apocalittica. Scrivere per due settimane consecutive, senza interruzioni, mi ha aiutata perché

tutta la mia ansia e il mio timore, è stato canalizzato nel raccontare questa storia, creando un

personaggio che mi aiutasse ad esorcizzare il mio terrore. Io, a differenza del mio personaggio, non

ero in pericolo di vita, quindi confrontarsi con un mostro più minaccioso del mio vissuto è stato

importante e mi ha portata con la mente altrove, permettendomi con la fantasia guidata dalla

scrittura, di uscire in sella della vespa di Edoardo, seguendolo nei suoi giorni alle prese con i conti

che deve far tornare, con i figli, le sue relazioni, il suo romanzo e l’insistenza del suo editore. Ho

avuto così modo, in un momento in cui la realtà era ferma, bloccata, “chiusa in casa”, di uscire per lestrade romane e vivere ciò che in quel momento mai avrei potuto vivere. Direi che se a Edoardo non ho certo reso facile la sua vita, lui per certo ha salvato la mia. E di questo gliene sarò eternamente grata e riconoscente.

– Ritieni che ci siano delle volte in cui, per andare avanti, sia necessario tornare sui propri passi?

Ritengo che nella scrittura, nell’arte, nella creatività, come nella vita sia necessario passeggiare

senza paura nei luoghi del passato. Luoghi del cuore. Luoghi in cui ci sono stati errori. Sbagli. Graffi.

Anche però, sorrisi. Momenti felici, forse irripetibili. È necessario capire che, tutti noi esseri umani ci interroghiamo su come creare una macchina del tempo per farci viaggiare all’indietro, quando non ci accorgiamo che abbiamo questa possibilità dentro noi stessi. Chiudere gli occhi e tornare in quel posto, in quell’istante. E rivivere tutto. Ogni volta. Riuscire a farlo senza sofferenza, credo sia la chiave per essere padroni della propria macchina del tempo. Ma forse per imparare, ci vuole una

vita intera. O qualcosa di più.

– L’ex moglie del protagonista, Vittoria, è un personaggio particolare. Sebbene il matrimonio

finito, è innegabile il legame che c’è tra lei e Edoardo. Ma cosa è Vittoria per il protagonista?

Ci sono amori che superano la vita e le sue decisioni. La vita spesso ci allontana. Ci divide. Sceglie

per noi e ci porta su altre strade. Questo però non demolisce un sentimento reale, profondo e

inspiegabile. Questo è il sentimento che tiene legato Edoardo a Vittoria. Non stanno più insieme.

Hanno firmato il divorzio e sono andati avanti, uno nella propria vita, e l’altra costruendosi la

propria, senza più ritrovarsi la notte con la testa sullo stesso cuscino. Ma ci si può amare una vita

intera, conoscersi come nessuno potrà mai, nemmeno noi stessi, e non stare più insieme. L’amore

non ha niente a che vedere con le relazioni. L’amore è, e basta. E non è possibile rinchiuderlo in

un’etichetta. Costringerlo a definizione.

– Credi che il primo amore possa davvero essere indelebile?

Ritengo che l’Amore, quello vero, non può che essere indelebile ed eterno. Questo non significa che

nella realtà quell’amore vivrà in una relazione che permane. La vita ci mette di fronte a scelte, e le

cose cambiano, le mani si perdono, ma l’Amore se vero, non potrà morire. È impossibilitato a

cancellarsi.

– Tra le prime persone che Edoardo Timbri sceglie di vedere sono i suoi tre figli. Incontra prima Sofia, poi Lara e infine Brenno. Quanto è stato difficile sondare in tre modi diversi il rapporto genitoriale del protagonista?

In tutta sincerità, senza un filo di superbia, ma al contrario con mia enorme sorpresa, non c’è stata

alcuna difficoltà con tutta l’intera stesura di “Non trovo più parole”. È stato tutto un divenire. Le mie

mani non facevano altro che battere i tasti del computer, districando i fili di questa storia che se ne

stava da chissà quanto tempo seduta ad aspettare di essere raccontata nella mia pancia. È stato

divertente. Entusiasmante. Profondo. Commovente. E necessario. È stato un viaggio incredibile

dove ogni cosa sembrava già lì, senza il mio volere, ma che io servissi solamente da tramite per far

nascere Edoardo Timbri con le sue vicende, i suoi amori, le sue incertezze e infinite paure. Con

questo romanzo ho capito che le storie, ci stanno intorno, sono loro che ci scelgono, e non

aspettano altro che noi le afferriamo e con coraggio le cediamo la parola.

– Considerando la fine del suo matrimonio, delle sue storie d’amore precedenti, la sua

declinazione di mentore, considerando poi come si comporta con il suo miglior studente,

possiamo dire che Edoardo Timbri è un personaggio che ha fallito più e più volte nella sua vita?

Possiamo dire che come ogni uomo nella realtà, a fare i conti con la sua vita, commette errori. È

umano. È la vita. Si sbaglia. Si cade, ci si fa male. Si fa del male agli altri, non volontariamente, ma

spesso può succedere. Ci si rialza. Si cerca un modo per stare a galla. Un motivo per continuare a

camminare. Edoardo Timbri è un uomo. Come tutti gli altri. Come tutti noi. In questo ho cercato di

ricalcare la vita. La vita che, seppur in maniera diversa, è a conti fatti, uguale per tutti. Edoardo non

esce sconfitto, anzi, la vittoria del protagonista sta, non tanto nel cancellare i suoi errori e riuscire a

riparare ogni situazione danneggiata, ma è nella sua capacità di aver capito questi errori, di aver

accettato e guardato in faccia questi sbagli e soprattutto sé stesso, perdonandosi. Un qualcosa che

ogni uomo nella sua vita, prima o dopo, è chiamato a fare. E non tutti sono così coraggiosi da

guardarsi dentro, perché farlo è doloroso, più di quantizzare a vivere senza farsi domande e

continuando ad inciampare. Io sono orgogliosa di Edoardo. Ha dato prova di essere un uomo, con i

suoi difetti, i suoi guai, ma con umanità e sensibilità, necessaria a renderlo un uomo capace di

raccontare storie, essere uno scrittore.

– Perché hai scelto questa precisa caratterizzazione del protagonista?

Se devo essere onesta, credo che di scelte io ne abbia fatte davvero poche, e se ne ho fatte, non me

ne sono accorta. Questa storia è stata tutta una corsa dietro i passi di Edoardo Timbri, e a

camminare con le sue gambe è stato lui, sin dal primo passo, sin dalla prima parola che ho scritto.

Non ho fatto altro che ascoltarlo e fidarmi di ciò che lui aveva da raccontare. Credo che il

personaggio era talmente strutturato che quando accade la storia è il protagonista a portarlo

avanti, senza necessità di struggersi a cercare colpi di scena. Accadono le cose. Semplicemente Come nella vita. E accadono a chi le vive, e a chi vive. Devo dire solo che la mia curiosità era

rivolta a capire e scoprire cosa si nasconde dietro la maschera che un personaggio noto e sotto i

riflettori mostra di sé. Chi è davvero quell’uomo che nella vita pubblica si mostra in una data

maniera? Il mio intento era solo domandarmi cosa si nascondesse dietro. Il mio interesse è la vita

vera che si nasconde dietro all’ipocrisia o alla facciata che si tiene quando si ha raggiunto una

certa notorietà. Edoardo è un uomo di successo. Ma io ho raccontato chi è lui, al di la e al di fuori

di ciò che mostra alle telecamere. Questo è il dato interessante. La vita vera, non la finzione. Non

è forse per questo che siamo incuriositi dai personaggi noti? Andando a leggerci le interviste,

guardandolo al televisore, ma chiedendoci sempre: Chissà come sarà davvero nella sua intimità.

Ci interessa ciò che non sappiamo e ciò che non ci viene ne detto ne mostrato.

– Il protagonista, all’interno del libro, ha un obiettivo preciso. Ma qual è l’obiettivo di Cristina

Leone Rossi?

L’obiettivo di questo romanzo era raccontare una storia che mi strappasse dalla realtà

catastrofica che stavo vivendo, e che tutti noi stavamo abitando con l’avvento della pandemia.

L’obiettivo del mio Edoardo Timbri era di scoprire sé stesso. Di interrogarsi su chi è stato, chi è, e

soprattutto su che uomo vuole essere davvero. Ed io assieme a lui, mi sono domandata le stesse

cose, e allo stesso modo mi sono analizzata. L’obiettivo esteso a quel che vorrei, è semplice.

Vorrei continuare a scrivere storie. Vorrei avere sempre qualcosa da dire e trovare occhi e

orecchie pronte all’ascolto e alla curiosità di perdersi tra le mie parole. Vivere di questo mestiere

sarebbe il più grande privilegio e non potrei desiderare di meglio. Raccontare storie è un modo

per non morire mai.

– Ritieni che ci siano delle volte in cui, per andare avanti, sia necessario tornare sui propri

passi?

Ritengo che nella scrittura, nell’arte, nella creatività, come nella vita sia necessario passeggiare

senza paura nei luoghi del passato. Luoghi del cuore. Luoghi in cui ci sono stati errori. Sbagli.

Graffi. Anche però, sorrisi. Momenti felici, forse irripetibili. È necessario capire che, tutti noi esseri

umani ci interroghiamo su come creare una macchina del tempo per farci viaggiare all’indietro,

quando non ci accorgiamo che abbiamo questa possibilità dentro noi stessi. Chiudere gli occhi e

tornare in quel posto, in quell’istante. E rivivere tutto. Ogni volta. Riuscire a farlo senza sofferenza,

credo sia la chiave per essere padroni della propria macchina del tempo. Ma forse per imparare,

ci vuole una vita intera. O qualcosa di più.

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